L'inferno di Dantokpa

Agosto 2009
Come premio per le due ragazze più grandi dell’associazione che si fanno in quattro per stare dietro a bambini e turisti decidiamo di portarle al grande mercato di Cotonou a Dantokpa per scegliersi un vestito che, come spesso accade nei sogni di un’adolescente, esiste solo nelle grandi città.
Partiamo da Ouidah pieni di entusiasmo, ci buttiamo a capofitto nel mercato, su e giù dalle scale, dentro e fuori dai vicoletti, prova questo, prova quello, fuori da un negozietto e dentro in un altro.
Colori, frastuono, odori, ad un certo punto la fatica, lo sfinimento di stare dietro a due diciassettenni scatenate amiche del cuore, portate in quello che corrisponde al nostro più grande centro commerciale.
Ci siamo divertiti da matti!!
Agosto 2010
Durante il viaggio di dicembre/gennaio veniamo a sapere che in un mercato di Cotonou vengono segregati i più piccoli che vengono sfruttati per fare i fabbri: il mercato dei bambini schiavi.
Una realtà che piano piano sta venendo a galla grazie ad un’associazione fondata da una donna beninese, Justine, che ha costruito una piccola aula scolastica proprio nel cuore del mercato dove le è stato concesso per due giorni la settimana di fare lezione.
La coscienza mi impone di andare a vedere ciò che so già non può essere spiegato a parole.
Partiamo da Ouidah e mi accorgo che la strada è la stessa che porta al mercato dove l’anno precedente ero stata comprare vestiti con le ragazze della Maison.
Passiamo davanti al parcheggio dove avevamo lasciato l’auto l’altra volta, giriamo l’angolo, la stradina si fa sempre più stretta, sempre più ammassata di gente, l’odore delle verdure e della sfrutta fresca si trasforma in putridume, i colori si spengono fino a lasciar posto solo al nero e lì il furgone si arresta.
Scendiamo.
Una sbarra bianca e rossa riporta la dicitura“halt police” che sta ad indicate che la polizia oltre quella sbarra non mette piede, varcata quella soglia vige la legge delle bestie. Quello è il confine tra decenza e indecenza.
Alzo gli occhi oltre la sbarra ed è l’inferno.
L’unico colore presente è il nero: la terra è nera, i cumuli di rifiuti sono neri, le mercanzie in vendita sono nere, i vestiti a brandelli della gente sono neri, ci sono bidoni di ferro neri lungo il fiume nero che ribolliscono in continuazione ma non si sa cosa ci sia dentro ma è nero e anche il fuoco è nero perché è dato dal carbone.
E non è che l’inizio.
Justine arriva in fretta e con lei ci addentriamo nei vicoli di questo girone dantesco.
Non voglio credere a quello che vedono i miei occhi, nemmeno raschiando a zero la mia coscienza rispetto a cosa può essere un essere umano riesco ad arrivare a tanto. Bambini, bambini e ancora bambini in tutto 230 che mi verrebbe da dire vivono, dormono, mangiano e lavorano sempre negli stessi 4 metri quadri della baracca del loro padrone.
Ma sono termini sbagliati perche non può essere definita vita una situazione del genere, non può esser definito mangiare ciò che arriva un giorno si e un giorno no e sa di putridume, non può essere definito dormire lo svenimento dopo la fatica di aver lavorato senza sosta dall’alba al tramonto 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno.
Questi bambini, bambini solo nei loro corpi minuti, battono incessantemente ferro nella loro sopravvivenza quotidiana, solo i più fortunati escono per recarsi alla discarica a rovistare tra i rifiuti per cercare qualcosa da riciclare, riutilizzare al loro rientro.
La vita media è molto molto bassa, regna qualsiasi tipo di malattia supportata dalla fatica.
Mentre ci addentriamo a fatica tra le baracche l’odore di putrefazione si fa sempre più insopportabile, il rumore battente dei martelli è assordante, i padroni stanno sdraiati a osservare le loro proprietà viventi e si muovono solo se devono criticare il lavoro svolto o incassare denaro.
La maggior parte dei bambini non alza nemmeno lo sguardo vedendomi passare, ma altri mi guardano per forza, perché solo vicini, vicini a tal punto che allungo una mano per una carezza ma loro rimangono impassibili oppure muovono un passo indietro e mi guardano con sguardo sbigottito e interrogatorio come per dire “che significato ha questo gesto, perche lo fai?” e mi si stringe il cuore nel vedere un bambino che non conosce più il significato di una carezza.
Ad un certo punto Justine ci ferma, un bambino ci mostra gli aeroplanini e le motociclette che ha costruito con i rifiuti di lattine e lei ci dice “dovete comprare qualcosa” comprare?? dare i soldi a quelle bestie dei padroni??..uno sguardo veloce scorre tra me e gli altri ragazzi dell’associazione ma lei ci dice “dovete farlo, serve a giustificare la presenza di bianchi qui, se no si insospettirebbero troppo, così hanno i soldi e stanno almeno zitti”, guardiamo gli oggettini in vendita e tra tutti mi accorgo che c’è un angelo, un angioletto identico a quelli che si appendono sull’albero di Natale, con la gonna e le manine giunte e mi vien da chiedermi come può un bambino che non conosce le carezze sapere cos’è un angelo.
Compriamo l’angioletto, una motocicletta e un aeroplanino, paghiamo inorriditi e ce ne andiamo, la nostra presenza sta diventando troppo invasiva e ci rifugiamo nell’aula dove si tengono le lezioni: nessuna biro, nessun quaderno perche sarebbero solo merce da rivendere, una lavagna e quattro panche; i bambini che vengono a lezione raramente sono gli stessi. Quando entriamo noi ce ne saranno una quindicina che in un francese stentato ci dicono quanti anni hanno e da quanto tempo lavorano lì, uno in particolare mi impressiona ancor più degli altri perche non dice nulla, dopo un lungo silenzio le uniche parole che pronuncia sono “io vivo qui” ed è tutto quello che sa dalla vita.
I bambini arrivano dal nord, i padroni vanno a prenderli nei villaggi più piccoli dove le scuole non esistono e ignoranza e disperazione regnano sovrane, promettono alle famiglie di portare i figli nella grande città dove impareranno un lavoro importante così potranno mandare denaro per aiutare l’intero villaggio ed invece vengono rinchiusi a Dantokpa e le famiglie ne perdono le tracce.
E i padroni chi sono??
La maggior parte di quelli presenti al mercato non son altro che bambini cresciuti che non conoscendo altro dal mondo quando il loro corpo prende le sembianze di un adulto prendono il posto dei padroni che muoiono. Altri sono invece quelli che vanno per villaggi, che tengono in piedi tutta la baracca e che fanno da ponte tra l’inferno e l’anima del commercio del paese. Non ho termini per descriverli.
Dantokpa in Fon, lingua locale, significa “il serpente nei pressi del fiume” e i vicoli di questa parte vietata del mercato lo ricordano perfettamente: un infinito serpente che si attorciglia sempre più, imprigionando la vita di centinaia di bambini e togliendo alla loro esistenza il significato di vita.
Torniamo a Ouidah, abbraccio le bambine ancor più intensamente del solito, ringrazio il cielo che siano lì a sorridere, che siano scampate ad un destino infame che le avrebbe viste rinchiuse in case anziché in baracche a far le schiave domestiche e quasi sicuramente non solo per le faccende di casa.
Ringrazio il cielo quando “rompono le scatole” perche finalmente hanno qualche piccolo vizio, qualche piccola pretesa, è una grande vittoria vedere che a poco a poco prendono coscienza del fatto che al mondo possono anche chiedere e volere e non solamente dare.
E se le più grandi si meriteranno un altro vestito?? Con fatica si ripartirà alla volta del mercato maledetto, rimanendo come l’agosto scorso nella parte bella, loro hanno già sofferto abbastanza, non è giusto che paghino ancora per colpa di altri; io tratterrò le lacrime pensando che 100 metri più in là, girato l’angolo ci sia l’inferno vivente, e se nonostante gli sforzi le lacrime scenderanno comunque gli dirò che saranno di gioia nel vederle così felici.
Si sa che l’Africa non ha vie di mezzo.
Come premio per le due ragazze più grandi dell’associazione che si fanno in quattro per stare dietro a bambini e turisti decidiamo di portarle al grande mercato di Cotonou a Dantokpa per scegliersi un vestito che, come spesso accade nei sogni di un’adolescente, esiste solo nelle grandi città.
Partiamo da Ouidah pieni di entusiasmo, ci buttiamo a capofitto nel mercato, su e giù dalle scale, dentro e fuori dai vicoletti, prova questo, prova quello, fuori da un negozietto e dentro in un altro.
Colori, frastuono, odori, ad un certo punto la fatica, lo sfinimento di stare dietro a due diciassettenni scatenate amiche del cuore, portate in quello che corrisponde al nostro più grande centro commerciale.
Ci siamo divertiti da matti!!
Agosto 2010
Durante il viaggio di dicembre/gennaio veniamo a sapere che in un mercato di Cotonou vengono segregati i più piccoli che vengono sfruttati per fare i fabbri: il mercato dei bambini schiavi.
Una realtà che piano piano sta venendo a galla grazie ad un’associazione fondata da una donna beninese, Justine, che ha costruito una piccola aula scolastica proprio nel cuore del mercato dove le è stato concesso per due giorni la settimana di fare lezione.
La coscienza mi impone di andare a vedere ciò che so già non può essere spiegato a parole.
Partiamo da Ouidah e mi accorgo che la strada è la stessa che porta al mercato dove l’anno precedente ero stata comprare vestiti con le ragazze della Maison.
Passiamo davanti al parcheggio dove avevamo lasciato l’auto l’altra volta, giriamo l’angolo, la stradina si fa sempre più stretta, sempre più ammassata di gente, l’odore delle verdure e della sfrutta fresca si trasforma in putridume, i colori si spengono fino a lasciar posto solo al nero e lì il furgone si arresta.
Scendiamo.
Una sbarra bianca e rossa riporta la dicitura“halt police” che sta ad indicate che la polizia oltre quella sbarra non mette piede, varcata quella soglia vige la legge delle bestie. Quello è il confine tra decenza e indecenza.
Alzo gli occhi oltre la sbarra ed è l’inferno.
L’unico colore presente è il nero: la terra è nera, i cumuli di rifiuti sono neri, le mercanzie in vendita sono nere, i vestiti a brandelli della gente sono neri, ci sono bidoni di ferro neri lungo il fiume nero che ribolliscono in continuazione ma non si sa cosa ci sia dentro ma è nero e anche il fuoco è nero perché è dato dal carbone.
E non è che l’inizio.
Justine arriva in fretta e con lei ci addentriamo nei vicoli di questo girone dantesco.
Non voglio credere a quello che vedono i miei occhi, nemmeno raschiando a zero la mia coscienza rispetto a cosa può essere un essere umano riesco ad arrivare a tanto. Bambini, bambini e ancora bambini in tutto 230 che mi verrebbe da dire vivono, dormono, mangiano e lavorano sempre negli stessi 4 metri quadri della baracca del loro padrone.
Ma sono termini sbagliati perche non può essere definita vita una situazione del genere, non può esser definito mangiare ciò che arriva un giorno si e un giorno no e sa di putridume, non può essere definito dormire lo svenimento dopo la fatica di aver lavorato senza sosta dall’alba al tramonto 7 giorni su 7, 365 giorni all’anno.
Questi bambini, bambini solo nei loro corpi minuti, battono incessantemente ferro nella loro sopravvivenza quotidiana, solo i più fortunati escono per recarsi alla discarica a rovistare tra i rifiuti per cercare qualcosa da riciclare, riutilizzare al loro rientro.
La vita media è molto molto bassa, regna qualsiasi tipo di malattia supportata dalla fatica.
Mentre ci addentriamo a fatica tra le baracche l’odore di putrefazione si fa sempre più insopportabile, il rumore battente dei martelli è assordante, i padroni stanno sdraiati a osservare le loro proprietà viventi e si muovono solo se devono criticare il lavoro svolto o incassare denaro.
La maggior parte dei bambini non alza nemmeno lo sguardo vedendomi passare, ma altri mi guardano per forza, perché solo vicini, vicini a tal punto che allungo una mano per una carezza ma loro rimangono impassibili oppure muovono un passo indietro e mi guardano con sguardo sbigottito e interrogatorio come per dire “che significato ha questo gesto, perche lo fai?” e mi si stringe il cuore nel vedere un bambino che non conosce più il significato di una carezza.
Ad un certo punto Justine ci ferma, un bambino ci mostra gli aeroplanini e le motociclette che ha costruito con i rifiuti di lattine e lei ci dice “dovete comprare qualcosa” comprare?? dare i soldi a quelle bestie dei padroni??..uno sguardo veloce scorre tra me e gli altri ragazzi dell’associazione ma lei ci dice “dovete farlo, serve a giustificare la presenza di bianchi qui, se no si insospettirebbero troppo, così hanno i soldi e stanno almeno zitti”, guardiamo gli oggettini in vendita e tra tutti mi accorgo che c’è un angelo, un angioletto identico a quelli che si appendono sull’albero di Natale, con la gonna e le manine giunte e mi vien da chiedermi come può un bambino che non conosce le carezze sapere cos’è un angelo.
Compriamo l’angioletto, una motocicletta e un aeroplanino, paghiamo inorriditi e ce ne andiamo, la nostra presenza sta diventando troppo invasiva e ci rifugiamo nell’aula dove si tengono le lezioni: nessuna biro, nessun quaderno perche sarebbero solo merce da rivendere, una lavagna e quattro panche; i bambini che vengono a lezione raramente sono gli stessi. Quando entriamo noi ce ne saranno una quindicina che in un francese stentato ci dicono quanti anni hanno e da quanto tempo lavorano lì, uno in particolare mi impressiona ancor più degli altri perche non dice nulla, dopo un lungo silenzio le uniche parole che pronuncia sono “io vivo qui” ed è tutto quello che sa dalla vita.
I bambini arrivano dal nord, i padroni vanno a prenderli nei villaggi più piccoli dove le scuole non esistono e ignoranza e disperazione regnano sovrane, promettono alle famiglie di portare i figli nella grande città dove impareranno un lavoro importante così potranno mandare denaro per aiutare l’intero villaggio ed invece vengono rinchiusi a Dantokpa e le famiglie ne perdono le tracce.
E i padroni chi sono??
La maggior parte di quelli presenti al mercato non son altro che bambini cresciuti che non conoscendo altro dal mondo quando il loro corpo prende le sembianze di un adulto prendono il posto dei padroni che muoiono. Altri sono invece quelli che vanno per villaggi, che tengono in piedi tutta la baracca e che fanno da ponte tra l’inferno e l’anima del commercio del paese. Non ho termini per descriverli.
Dantokpa in Fon, lingua locale, significa “il serpente nei pressi del fiume” e i vicoli di questa parte vietata del mercato lo ricordano perfettamente: un infinito serpente che si attorciglia sempre più, imprigionando la vita di centinaia di bambini e togliendo alla loro esistenza il significato di vita.
Torniamo a Ouidah, abbraccio le bambine ancor più intensamente del solito, ringrazio il cielo che siano lì a sorridere, che siano scampate ad un destino infame che le avrebbe viste rinchiuse in case anziché in baracche a far le schiave domestiche e quasi sicuramente non solo per le faccende di casa.
Ringrazio il cielo quando “rompono le scatole” perche finalmente hanno qualche piccolo vizio, qualche piccola pretesa, è una grande vittoria vedere che a poco a poco prendono coscienza del fatto che al mondo possono anche chiedere e volere e non solamente dare.
E se le più grandi si meriteranno un altro vestito?? Con fatica si ripartirà alla volta del mercato maledetto, rimanendo come l’agosto scorso nella parte bella, loro hanno già sofferto abbastanza, non è giusto che paghino ancora per colpa di altri; io tratterrò le lacrime pensando che 100 metri più in là, girato l’angolo ci sia l’inferno vivente, e se nonostante gli sforzi le lacrime scenderanno comunque gli dirò che saranno di gioia nel vederle così felici.
Si sa che l’Africa non ha vie di mezzo.