io voglio fare la manovra

un amico mi ha mandato questo scritto che vorrei condividere con voi e sapere come la pensate
La rivoluzione islandese
01 set 2011 — Davide Casati
In Islanda è in corso una rivoluzione. Di cui nessuno, o quasi, parla. Eppure è la storia di come un
Paese è riuscito a uscire dalla crisi economica, a evitare il fallimento Questa è la storia di una
rivoluzione. Sta accadendo ora, in Europa: anche se ad accorgersene sono pochissimi. Forse perché a
farle da sfondo è l'Islanda: 103 mila chilometri quadrati, 320mila abitanti, una capitale grande
come Reggio Emilia, cognomi impossibili. Eppure di rivoluzione si tratta: governo costretto alle
dimissioni, banche nazionalizzate, banchieri arrestati, democrazia popolare. Roba pericolosa,
penserà qualcuno. Forse, ma bisognerebbe capire per chi: non per gli islandesi, che così hanno
salvato il loro Paese dalla crisi economica (nella quale l'Italia, ad esempio, resta impantanata), e
lo stanno trasformando in un esperimento senza precedenti. Vale la pena dare un'occhiata, a una
rivoluzione così. Ecco la sua storia.
Tutto inizia nel 2001. È allora che il governo islandese inizia a privatizzare il settore bancario.
La mossa avrà la sua conclusione due anni dopo, nel 2003. Le tre banche principali - Landbanki,
Kapthing e Glitnir - offrono alti interessi attraverso un programma chiamato IceSave. I soldi
iniziano ad arrivare, specie da Inghilterra e Olanda. Tra il 2002 e il 2008 la Borsa islandese sale
del 900 per cento, il prodotto interno lordo cresce del 5.5 per cento l'anno. Ritmi impossibili per
qualunque altro Paese occidentale. Ma crescono anche i debiti delle banche: nel 2007 arrivano al
900% del PIL islandese. Ed è a quel punto, nel 2008, che il geyser della crisi economica esplode.
Gli investitori stranieri chiedono alle banche di rendere loro il denaro. Il governo non ha le
risorse per salvarle, e così finiscono in bancarotta. Per gli islandesi si tratta di un danno
enorme: il governo è costretto a nazionalizzare gli istituti bancari e a promettere che i cittadini
non perderanno gli investimenti in denaro, ma il valore di molti altri investimenti crolla in modo
verticale. La Corona perde l'85% del suo valore di cambio sull'euro. Alla fine del 2008 il governo
islandese si dichiara insolvente: è la bancarotta.
Il governo fa quello che tutti i governi fanno, in casi simili: bussa alle porte del fondo Monetario
Internazionale e dell'Unione Europea. Sembra l'unico modo per ripagare i debiti nei confronti degli
investitori inglesi e olandesi, che ammontano a 3,5 miliardi di euro. È il gennaio 2009. Per trovare
i soldi necessari, il governo studia un prelievo straordinario: ogni cittadino islandese avrebbe
dovuto pagare 100 euro al mese per 15 anni, a un tasso di interesse del 5,5% annuo. Il tutto per
pagare danni creati da altri: un debito contratto da banche private nei confronti di altri soggetti
privati. È a quel punto che la rabbia popolare esplode. A guidarla, in qualche modo, ci sono un
cantante e una donna, lesbica. E' l'alba della rivoluzione islandese.
Di fronte alla situazione economica del Paese, i cittadini islandesi scendono in piazza. Non per un
giorno solo: per 14 settimane. Cingono d'assedio il Parlamento, chiedendo una sola cosa: le
dimissioni di un governo, quello conservatore di Geir Haarde, dimostratosi incapace di gestire la
crisi e di sbattere la porta in faccia agli organismi internazionali che chiedevano a tutti i
cittadini di pagare le colpe di altri.
Il culmine della protesta si raggiunge il 20 gennaio 2009. Mentre a Washington l'America saluta
l'entrata in carica del suo primo presidente di colore, a Reykjavik la popolazione segue le parole
di un altro uomo dal carisma innegabile. Si chiama Hordur Torfason, di mestiere fa il cantautore. È
gay, è stato il fondatore del primo movimento per i diritti degli omosessuali in Islanda. Era il
'78, e le sue canzoni non erano viste con favore. Troppo estreme. D'altronde Torfason sostiene che
"il compito di un artista è criticare l'autorità". Torfason mette in scena una protesta solitaria
nell'ottobre 2008, all'esplodere della crisi. Nel corso delle settimane diventa un punto di
riferimento. Il 20 gennaio è in piazza mentre la popolazione si scontra con la polizia, ed è ancora
lì anche il 21, e il 22. Il 23 gennaio il premier annuncia le dimissioni. La gente non se ne va: non
ancora. Chiede elezioni immediate e una scena politica nuova. Il 26 gennaio Haarde se ne va. Il 1
febbraio l'Islanda ha una nuova premier. E anche questa è una rivoluzione.
Il nuovo primo ministro si chiama Johanna Sigurdadottir, ha 58 anni. È la prima donna premier
dell'Islanda, e la prima omosessuale al mondo a diventare primo ministro. A metà degli ani '90,
quando non venne eletta alla guida del suo partito, urlò: "Minn timi mun koma!", "Verrà il mio
momento". Quelle parole sono entrate nell'uso comune, in Islanda. E Johanna ha visto realizzarsi la
sua profezia.
Il suo primo passo è di indire le elezioni: le vince. Il secondo è di confermare la volontà
dell'Islanda di pagare i debiti a Olanda e Inghilterra. Il parlamento dà vita a una norma che
contiene una supertassa. È il febbraio 2010 quando il presidente Grimsson si rifiuta di ratificarla,
ascolta la voce della piazza e indice un referendum sulla tassa. La pressione sull'Islanda è alle
stelle. Olanda e Inghilterra minacciano di isolare l'Islanda, se sceglierà di non ripagare i debiti.
Il fondo Monetario lega alla decisione il versamento degli aiuti. "Ci dissero che se non avessimo
accettato le condizioni della comunità internazionale saremmo diventati la Cuba del Nord", ricorda
Grimsson. "Ma se le avessimo accettate saremmo diventati la Haiti del Nord".
Il referendum si tiene a marzo 2010: il 93% dei votanti decide di rischiare di diventare la Cuba del
Nord. Il Fondo Monetario congela immediatamente gli aiuti. Il governo risponde mettendo sotto
inchiesta i banchieri e i top manager responsabili della crisi finanziaria. L'Interpol emette un
mandato di arresto internazionale per l'ex presidente della banca Kaupthing, Einarsson, mentre altri
banchieri implicati nel crac fuggono dal Paese. Può essere l'inizio della fine dell'Islanda, vista
come un paria a livello internazionale e alle prese con una rivolta continua. È l'inizio della
rinascita.
La rivoluzione islandese
01 set 2011 — Davide Casati
In Islanda è in corso una rivoluzione. Di cui nessuno, o quasi, parla. Eppure è la storia di come un
Paese è riuscito a uscire dalla crisi economica, a evitare il fallimento Questa è la storia di una
rivoluzione. Sta accadendo ora, in Europa: anche se ad accorgersene sono pochissimi. Forse perché a
farle da sfondo è l'Islanda: 103 mila chilometri quadrati, 320mila abitanti, una capitale grande
come Reggio Emilia, cognomi impossibili. Eppure di rivoluzione si tratta: governo costretto alle
dimissioni, banche nazionalizzate, banchieri arrestati, democrazia popolare. Roba pericolosa,
penserà qualcuno. Forse, ma bisognerebbe capire per chi: non per gli islandesi, che così hanno
salvato il loro Paese dalla crisi economica (nella quale l'Italia, ad esempio, resta impantanata), e
lo stanno trasformando in un esperimento senza precedenti. Vale la pena dare un'occhiata, a una
rivoluzione così. Ecco la sua storia.
Tutto inizia nel 2001. È allora che il governo islandese inizia a privatizzare il settore bancario.
La mossa avrà la sua conclusione due anni dopo, nel 2003. Le tre banche principali - Landbanki,
Kapthing e Glitnir - offrono alti interessi attraverso un programma chiamato IceSave. I soldi
iniziano ad arrivare, specie da Inghilterra e Olanda. Tra il 2002 e il 2008 la Borsa islandese sale
del 900 per cento, il prodotto interno lordo cresce del 5.5 per cento l'anno. Ritmi impossibili per
qualunque altro Paese occidentale. Ma crescono anche i debiti delle banche: nel 2007 arrivano al
900% del PIL islandese. Ed è a quel punto, nel 2008, che il geyser della crisi economica esplode.
Gli investitori stranieri chiedono alle banche di rendere loro il denaro. Il governo non ha le
risorse per salvarle, e così finiscono in bancarotta. Per gli islandesi si tratta di un danno
enorme: il governo è costretto a nazionalizzare gli istituti bancari e a promettere che i cittadini
non perderanno gli investimenti in denaro, ma il valore di molti altri investimenti crolla in modo
verticale. La Corona perde l'85% del suo valore di cambio sull'euro. Alla fine del 2008 il governo
islandese si dichiara insolvente: è la bancarotta.
Il governo fa quello che tutti i governi fanno, in casi simili: bussa alle porte del fondo Monetario
Internazionale e dell'Unione Europea. Sembra l'unico modo per ripagare i debiti nei confronti degli
investitori inglesi e olandesi, che ammontano a 3,5 miliardi di euro. È il gennaio 2009. Per trovare
i soldi necessari, il governo studia un prelievo straordinario: ogni cittadino islandese avrebbe
dovuto pagare 100 euro al mese per 15 anni, a un tasso di interesse del 5,5% annuo. Il tutto per
pagare danni creati da altri: un debito contratto da banche private nei confronti di altri soggetti
privati. È a quel punto che la rabbia popolare esplode. A guidarla, in qualche modo, ci sono un
cantante e una donna, lesbica. E' l'alba della rivoluzione islandese.
Di fronte alla situazione economica del Paese, i cittadini islandesi scendono in piazza. Non per un
giorno solo: per 14 settimane. Cingono d'assedio il Parlamento, chiedendo una sola cosa: le
dimissioni di un governo, quello conservatore di Geir Haarde, dimostratosi incapace di gestire la
crisi e di sbattere la porta in faccia agli organismi internazionali che chiedevano a tutti i
cittadini di pagare le colpe di altri.
Il culmine della protesta si raggiunge il 20 gennaio 2009. Mentre a Washington l'America saluta
l'entrata in carica del suo primo presidente di colore, a Reykjavik la popolazione segue le parole
di un altro uomo dal carisma innegabile. Si chiama Hordur Torfason, di mestiere fa il cantautore. È
gay, è stato il fondatore del primo movimento per i diritti degli omosessuali in Islanda. Era il
'78, e le sue canzoni non erano viste con favore. Troppo estreme. D'altronde Torfason sostiene che
"il compito di un artista è criticare l'autorità". Torfason mette in scena una protesta solitaria
nell'ottobre 2008, all'esplodere della crisi. Nel corso delle settimane diventa un punto di
riferimento. Il 20 gennaio è in piazza mentre la popolazione si scontra con la polizia, ed è ancora
lì anche il 21, e il 22. Il 23 gennaio il premier annuncia le dimissioni. La gente non se ne va: non
ancora. Chiede elezioni immediate e una scena politica nuova. Il 26 gennaio Haarde se ne va. Il 1
febbraio l'Islanda ha una nuova premier. E anche questa è una rivoluzione.
Il nuovo primo ministro si chiama Johanna Sigurdadottir, ha 58 anni. È la prima donna premier
dell'Islanda, e la prima omosessuale al mondo a diventare primo ministro. A metà degli ani '90,
quando non venne eletta alla guida del suo partito, urlò: "Minn timi mun koma!", "Verrà il mio
momento". Quelle parole sono entrate nell'uso comune, in Islanda. E Johanna ha visto realizzarsi la
sua profezia.
Il suo primo passo è di indire le elezioni: le vince. Il secondo è di confermare la volontà
dell'Islanda di pagare i debiti a Olanda e Inghilterra. Il parlamento dà vita a una norma che
contiene una supertassa. È il febbraio 2010 quando il presidente Grimsson si rifiuta di ratificarla,
ascolta la voce della piazza e indice un referendum sulla tassa. La pressione sull'Islanda è alle
stelle. Olanda e Inghilterra minacciano di isolare l'Islanda, se sceglierà di non ripagare i debiti.
Il fondo Monetario lega alla decisione il versamento degli aiuti. "Ci dissero che se non avessimo
accettato le condizioni della comunità internazionale saremmo diventati la Cuba del Nord", ricorda
Grimsson. "Ma se le avessimo accettate saremmo diventati la Haiti del Nord".
Il referendum si tiene a marzo 2010: il 93% dei votanti decide di rischiare di diventare la Cuba del
Nord. Il Fondo Monetario congela immediatamente gli aiuti. Il governo risponde mettendo sotto
inchiesta i banchieri e i top manager responsabili della crisi finanziaria. L'Interpol emette un
mandato di arresto internazionale per l'ex presidente della banca Kaupthing, Einarsson, mentre altri
banchieri implicati nel crac fuggono dal Paese. Può essere l'inizio della fine dell'Islanda, vista
come un paria a livello internazionale e alle prese con una rivolta continua. È l'inizio della
rinascita.